note
galleria
IL PANICO
2013
DA RAFAEL SPREGELBURD
note
Ne Il panico - commedia nera e vertiginosa di Spregelburd - lo sguardo della scrittura sul presente è immediatamente ludico, pronto a divertire il suo pubblico, nel senso più proprio della parola – volger-lo altrove. Il ‘panico’ però nel testo non è tanto un peccato nel senso medievale, quanto una colpa appunto, uno ‘stato’ del mondo contemporaneo. Stato d’animo che si genera tra persone affannate a rincorrere una vita in cui tutti hanno due, tre lavori contemporaneamente, si arrabattano come possono e inseguono come pazzi - è il caso dei protagonisti - le chiavi smarrite di una cassetta di sicurezza. La gente sembra desiderare l'impossibile: vivere bene, ma nel sistema capitalistico. In questo stato di cose, confuse e dense – come la pittura di Bosch nel cuore dei cambi paradigmatici del suo tempo, anche la morte finisce con l’apparire a tratti ridicola, e ciascuno sembra condannato a vivere un’esistenza su più piani spaziali e temporali, tra economie segrete e conflitti fra nazioni. E decodificare la realtà diventa impossibile se non del tutto inutile.
La storia di una famiglia alle prese con un lutto e una chiave smarrita, un’agente immobiliare che non riesce ad affittare un appartamento infestato dai morti, e un ensemble di ballerine sono solo alcune delle chiavi che aprono altrettante porte dalle quali spiare questa solitudine assordante. Chi è morto non sa di esserlo, chi è vivo non riesce propriamente a vivere, una forma di panico ridicolo attanaglia chiunque, come se i personaggi non fossero mai presenti a sé stessi e tornassero confusamente, ossessivamente sui propri passi, cercando di ricominciare d’accapo. Il panico, in fondo, è un’opera sulla Trascendenza che utilizza solo mattoncini di banalità. Il trascendente appare per rigorosa omissione e la concatenazione delle situazioni è capricciosamente debole perché tutto è intaccato dalla mostruosità entropica della dispersione. Ma i personaggi non lo sanno. Il panico, come ogni racconto poliziesco, racconta una storia segreta mentre ha l'aria di dirne un'altra a viva voce, e condivide con gli altri testi dell’Eptalogia di Rafael Spregelburd alcuni tratti: il gusto per la complicazione inutile, il gioco di registri linguistici anomali, i doppi giochi narrativi, l'uso abusivo di generi sequestrati al cinema: dal B movie horror, al noir, passando per David Lynch. Il panico nella sua ostinata manifattura geroglifica, nel suo civettare con la forma del frattale è un'altra espressione dell’affezione di Spregelburd per il labirinto.
UNA NOTA DI RAFAEL SPREGELBURD
Nella Tavola dei Peccati Capitali di Bosch, la vile pigrizia è rappresentata da un personaggio che preferisce starsene, accanto al fuoco piuttosto che dedicarsi al faticoso compito di leggere la parola di Dio. Parliamo del Medioevo, quando la pigrizia non è riposare per piacere; pigrizia è cedere alla facilità del migliore dei piaceri – la calma – e dimenticare così i molesti e insolubili paradossi ai quali ci sottomette la fede. Molto prima della morale, diciamo migliaia di anni fa, gli dei instaurarono la morte. Lo fecero con l’unico scopo di differenziarsi dagli uomini. E di sopravvivere all’ateismo. La natura della morte consisterebbe nella sua irreversibilità. Fu un ragionamento semplice, elementare. Il mondo venne diviso in due. I vivi rimasero da allora separati dai loro morti. Il patto venne sugellato con una chiave, che non si doveva utilizzare. Un dio egizio, tormentato dall’amore, trovò la strategia per nascondere questa chiave. Ma anche se gli dei sono immortali, nessuna chiave è infallibile. Ancor meno qui. E adesso. Adesso che gli dei ormai non si manifestano, la fede è rimpiazzata dal suo succedaneo più prossimo: il terrore.
L’orrore del reincontro fra vivi e morti è immenso: non ci sono parole per comprendere la morte, né i suoi aspetti. È la stessa paura di Orfeo: la paura di poter recuperare, all’improvviso, tutto ciò che si è amato ed era perduto. I morti provano terrore, terrore per quel momento infausto di lucidità nel quale comprendono di essere morti, e che lo sono per sempre. I vivi, semplicemente, hanno paura di tutto. Tutto. Senza priorità né certezze.
Ringraziamo Manuela Cherubini senza la cui magnifica traduzione, la presenza preziosa e lo sguardo, questo nostro Panico non sarebbe stato possibile.
crediti
liberamente ispirato a Rafael Spregelburd traduzione di Manuela Cherubini regia Lisa Ferlazzo Natoli regista collaboratore Alice Palazzi aiuto regia Elisa Di Francesco suono Alessandro Ferroni luci Raoul Terilli consulenza al movimento Roberta Zanardo costumi Benedetta Rustici il lavoro contiene 'clima' di MK scrittura scenica collettiva con Caterina Acampora, Lavinia Anselmi, Dacia D’Acunto, Alessandra De Rosario, Chiara Giorgetti, Jessica Granato, Stefano Lionetto, Anna Mallamaci, Riccardo Marotta, Gianluca Passarelli, Matteo Pelle, Claudia Roncallo, Benedetta Rustici foto di scena Sveva Bellucci grafica madpar una produzione Centro Internazionale La Cometa e lacasadargilla
foto
fotografie © Sveva Belucci
“È una maledizione… Il mondo dei morti stanca. (…) Da secoli è così. Pare che essere morti sia orribile. I morti riescono a sopportarlo perché hanno un accordo che si firma nell’aldilà.”